TRIBUNALE ORDINARIO DI LAGONEGRO 
                           Sezione Penale 
 
    Il Tribunale nelle persone dei magistrati: 
        dott. Nicola Marrone, Presidente; 
        dott.ssa Giusy Viterale, giudice; 
        dott. Filippo Lombardi, giudice est., 
    sulla istanza, depositata il 2  ottobre  2019  dall'avv.  Antonio
Boccia, di sospensione dell'ordine di carcerazione  n.  31/2019  SIEP
emesso dalla Procura di Lagonegro nei confronti di M. A. , nata a ...
il ... , ivi residente alla ...; 
    sentite le parti all'udienza camerale del  10  ottobre  2019,  in
particolare il difensore  che  si  e'  riportato  ai  motivi  e  alle
richieste contenuti nell'istanza, ed il pubblico ministero che  nulla
ha osservato; 
    a scioglimento  della  riserva  assunta,  pronuncia  la  seguente
ordinanza di rigetto dell'istanza di sospensione dell'esecuzione e di
contestuale rimessione alla Corte costituzionale della  questione  di
legittimita' costituzionale dell'art. 1, comma 6, lettera  b),  legge
n. 3/2019 (articoli 656, comma 9, 666, 670 codice di procedura penale
art. 23, legge n. 87/1953). 
    1. Con l'istanza indicata in premessa, l'avv.  Boccia,  difensore
della  condannata  M.  A.  ,  ha  chiesto   sospendersi   l'efficacia
dell'ordine di carcerazione disposto dalla Procura di  Lagonegro  nei
confronti della prevenuta, condannata da questo Tribunale  alla  pena
di anni due mesi 10  di  reclusione,  con  sentenza  n.  1084  del  2
novembre  2018  (depositata  in  data  9  novembre   2018;   divenuta
irrevocabile in data 26 marzo 2019), per il  reato  di  cui  all'art.
314, comma 1, codice penale commesso fino al 25 luglio 2014. 
    Nell'istanza,   il   difensore    evidenzia    che    e'    stato
illegittimamente applicato nei confronti della  M.  l'art.  4-bis  L.
ord. pen., come modificato dall'art. 1, comma 6, lettera b), legge n.
3/2019, c.d. «Spazzacorrotti», che ha incluso nel  novero  dei  reati
ostativi all'accesso alle misure alternative alla detenzione,  al  di
fuori dei casi di «collaborazione», il delitto di peculato nella  sua
formulazione piu' grave di cui al primo comma, sicche' non  e'  stata
disposta ex ante dal pubblico ministero la sospensione dell'ordine di
esecuzione ex art. 656, comma  5,  codice  di  procedura  penale,  in
quanto vietata dal successivo comma 9 richiamante  l'art.  4-bis  per
come novellato. 
    Ha  chiesto  inoltre   sollevarsi   questione   di   legittimita'
costituzionale dell'art. 1, comma 6,  lettera  b),  legge  n.  3/2019
nella parte in cui modifica l'art. 4-bis legge  cit.,  per  contrasto
con  l'art.  3  Cost.  per  mancata  previsione  di  una   disciplina
transitoria che ne comportasse l'applicazione ai fatti commessi  dopo
la sua entrata in vigore; nonche' per contrasto con gli articoli  117
Cost. e 7 della Convenzione europea per la salvaguardia  dei  diritti
dell'uomo e delle liberta' fondamentali poiche' la  norma  in  parola
non puo' ricevere  applicazione  retroattiva  in  senso  sfavorevole,
avendo natura sostanziale. 
    Richiama a sostegno la giurisprudenza di legittimita' e di merito
che piu' di recente ha affrontato la  questione  ritenendo  di  dover
attribuire alla norma natura sostanziale e/o rinvenendo nella  stessa
profili  di  dubbia  costituzionalita'   sotto   il   profilo   della
retroattivita' in peius e dell'assenza di una disciplina  transitoria
che ne garantisca l'applicazione solo ai fatti commessi dopo  la  sua
entrata in vigore (in particolare l'istanza cita Cassazione, sez. VI,
14 marzo 2019,  n.  12541;  Corte  app.  Reggio  Calabria,  sez.  II,
ordinanza del 10 aprile 2019; tribunale Como, Ufficio giudice per  le
indagini preliminari, ordinanza 8 marzo 2019; Corte app. Lecce,  Sez.
penale, ordinanza 4  aprile  2019;  Tribunale  sorveglianza  Venezia,
ordinanza 8 aprile 2019). 
    2. Giova preliminarmente rammentare  i  termini  della  questione
transitando per una  breve  disamina  della  normativa  rilevante  ai
nostri fini. 
    L'attuazione  della  condanna  a  pena   detentiva,   previamente
pronunciata dal giudice di  cognizione  avverso  l'imputato,  avviene
mediante la fase esecutiva, della  quale  e'  elevato  a  dominus  il
pubblico ministero; egli, infatti, in ossequio all'art. 656, comma  1
del codice di procedura penale, emette un «ordine di esecuzione»  con
il quale dispone la carcerazione. 
    Detto ordine di esecuzione e' sospeso  ai  sensi  dell'art.  656,
comma 5 del codice di procedura  penale  quando  la  pena  detentiva,
anche costituente residuo di maggiore pena, non supera i quattro anni
nei casi ordinari (cfr. Corte costituzionale, 2 marzo 2018, n. 41)  e
nelle ipotesi ex art. 47-ter, comma 1, legge n. 354/1975 o i sei anni
nei casi ex articoli  90  e  94  del  decreto  del  Presidente  della
Repubblica n. 309/1990: in questo caso,  l'ordine  e  il  decreto  di
sospensione sono notificati al condannato e al suo difensore, al fine
di consentire, entro i trenta  giorni  successivi,  di  proporre,  al
Tribunale di sorveglianza  competente,  istanza  per  l'accesso  alle
misure  alternative  alla  detenzione.  Non  e'  pero'   sospendibile
l'ordine  di  esecuzione,  ai  sensi  del  successivo  comma  9,  nei
confronti dei condannati per i delitti di cui  all'art.  4-bis  della
legge n.  354/1975  ed  ulteriori  ipotesi  criminose  specificamente
indicate dal comma in parola. 
    Dalla lettura congiunta dell'art. 4-bis L. ord.  pen.  richiamato
(«Divieto  di  concessione  dei   benefici   e   accertamento   della
pericolosita' sociale dei condannati per alcuni delitti»), si evince,
a seguito dell'entrata in vigore della legge n.  3/2019  (31  gennaio
2019), che, per i reati commessi contro la pubblica  amministrazione,
tassativamente indicati e tra  i  quali  figura  il  delitto  di  cui
all'art. 314, comma 1 del codice penale per il quale la prevenuta  ha
subito condanna, i benefici indicati nella norma  -  assegnazione  al
lavoro all'esterno, permessi premio, accesso alle misure  alternative
alla detenzione - possono essere attribuiti solo qualora i detenuti o
internati collaborino con la giustizia a norma dell'art. 58-ter della
L. ord. pen. o ai sensi dell'art. 323-bis del codice penale. 
    E'  stato  sostenuto  in  dottrina  e  in  giurisprudenza,  anche
recentissima, che l'ampliamento per tipologie di reato del novero  di
cui  all'art.  4-bis  cit.  avviene  nella  logica   legislativa   di
presunzione  di  pericolosita'  della  persona  condannata   per   lo
specifico titolo di reato e di sua  marcata  diffidenza  al  richiamo
rieducativo, sicche' sarebbe giustificato  inasprirne  le  condizioni
di' accesso a vantaggiose modalita' esecutive della pena  e  vietarne
l'immediata  facolta',  al  momento  dell'emissione  dell'ordine   di
carcerazione, di fare istanza di accesso alle misure alternative alla
detenzione. 
    3. Il primo profilo da analizzare riguarda la natura della  norma
e la applicabilita' nei suoi  riguardi  del  divieto  di  retroazione
sfavorevole, invocato dall'istante. 
    Non  sussistono  infatti  criticita'  di  sorta  per  coloro  che
commetteranno (o abbiano gia' commesso) i  reati  indicati  nell'art.
4-bis L. ord. pen. dopo il 31 gennaio 2019, data di entrata in vigore
della legge n. 3/2019. 
    Osservazioni particolareggiate vanno invece svolte con riguardo a
coloro i quali abbiano commesso  i  fatti  delittuosi  prima  del  31
gennaio  2019,  siano  cosi'  stati  condannati  dal  giudice   della
cognizione,  ed  abbiano  visto  iniziare  la  fase  esecutiva  della
condanna, che coincide col  passaggio  in  giudicato  della  relativa
pronuncia giurisdizionale, dopo l'avvento della novella del 2019. 
    In questi casi infatti, deve rispondersi alla domanda se il nuovo
art. 4-bis cit. possa applicarsi acriticamente al condannato in  fase
di esecuzione della pena, o indirizzi i propri effetti solo verso  le
«condotte» poste in essere dopo la sua entrata in vigore. La risposta
dipende con tutta evidenza dalla natura che si attribuisce alla norma
in parola. 
    Se si' conferisce alla stessa una natura processuale, essa andra'
applicata in ossequio al principio tempus regit actum, si' da operare
nei confronti di tutti i condannati quando la «fase esecutiva»  della
loro condanna trovi il proprio incipit successivamente  alla  entrata
in vigore della legge n. 3/2019. 
    Laddove invece si attribuisse  all'art.  4-bis  cit.  una  natura
sostanziale,  esso  dovrebbe  essere   sottoposto   al   divieto   di
retroazione sfavorevole di cui agli articoli 25 Cost., 2  del  codice
penale e 7, comma 1 della Convenzione europea per la salvaguardia dei
diritti   dell'uomo   e   delle   liberta'   fondamentali,    sicche'
l'inasprimento del regime di accesso  ai  benefici  ed  il  correlato
divieto  di  sospensione  dell'ordine  di   esecuzione   troverebbero
ricaduta  pratica  solo  per  i  «fatti»   commessi   successivamente
all'entrata in vigore della legge n. 3/2019. 
    Sul punto, deve darsi atto dell'esistenza di una recente opinione
ermeneutica, diffusa in una parte della giurisprudenza  di  merito  e
sostenuta da ampia dottrina, secondo cui la norma  qui  di  interesse
assumerebbe la conformazione di norma  sostanziale  alla  luce  degli
orientamenti sovranazionali secondo cui  avrebbe  natura  sostanziale
ogni norma penale che incida sullo status libertatis della persona  e
che non attenga  strettamente  alle  modalita'  di  accertamento  del
reato. 
    Si  e'  infatti  sostenuto  che  occorre  avere   riguardo,   per
attribuire alla norma penale natura sostanziale, alla incidenza della
stessa sulla natura afflittiva della pena  e  sulla  aggressione  del
bene della liberta' personale. 
    In  quest'ottica,  gli  articoli  656,  comma  9  del  codice  di
procedura penale  e  4-bis  L.  ord.  pen.  non  inciderebbero  sulle
modalita' esecutive della pena ma imporrebbero  nell'immediatezza  un
regime detentivo in  attesa  che  il  Tribunale  di  sorveglianza  si
pronunci sull'accesso alla misura alternativa, la quale potra' essere
invocata solo a carcerazione avvenuta; si' e' ritenuto  pertanto  che
la norma in questione  escluda  una  dinamica  sostitutiva  incidendo
sulla riespansione dell'istituto privativo della liberta'  personale,
in questo modo sfuggendo alla dimensione meramente esecutiva. 
    A sostegno della tesi ora esposta, si e' richiamata  la  sentenza
Cassazione sez. VI, n. 12541/2019, nella quale si rammenta come nella
recente giurisprudenza della Corte europea dei diritti dell'uomo  «ai
fini del riconoscimento delle garanzie convenzionali, i  concetti  di
illecito  penale  e  di  pena  abbiano   assunto   una   connotazione
antiformalista e sostanzialista, privilegiandosi alla  qualificazione
formale  data  dall'ordinamento   (all'«etichetta»   assegnata),   la
valutazione in ordine al tipo, alla durata, agli effetti nonche' alle
modalita' di esecuzione della sanzione o della misura imposta». 
    La stessa pronuncia di legittimita' citata richiama a supporto la
sentenza del 21 ottobre 2013 della Grande Camera della Corte  europea
dei diritti dell'uomo nel caso Del Rio Prada contro Spagna, in cui si
giungerebbe ad affermare che «ai fini del rispetto del  principio  di
affidamento del consociato circa  la  prevedibilita'  della  sanzione
penale occorre avere riguardo non solo alla pena  irrogata  ma  anche
alla sua esecuzione». 
    E'  stato  in  senso  contrario  statuito  che  le   disposizioni
concernenti l'esecuzione delle pene detentive e le misure alternative
alla  detenzione,  riguardando  le  sole  modalita'  esecutive  della
stessa, non  guadagnano  la  veste  di  norme  penali  sostanziali  e
pertanto,  in  difetto  di  una  specifica  disciplina   transitoria,
soggiacciono al principio  tempus  regit  actum  e  non  alle  regole
dettate in materia di successione di norme penali nel tempo (si  veda
Cassazione  sez.  un.  24561/2006;  Cassazione  sez.  I,  37578/2016;
Cassazione sez. I, 11580/2013; Cassazione sez. IV, 18 settembre 2012,
n.  43117;  Cassazione  sez.  I,  46649/2009;  Cassazione   sez.   I,
46924/2009; Cassazione sez. I, 3789/1994). 
    Inoltre,  la  stessa  Corte  della  nomofilachia  ha  di  recente
superato la teoria sostanzialista svolgendo  importanti  precisazioni
sul punto (v. Cassazione sez. I, ordinanza 18 giugno 2019, n. 31853). 
    La modifica normativa avrebbe introdotto, per i reati  contro  la
pubblica amministrazione tassativamente indicati, una  riformulazione
peggiorativa  delle  (sole)  condizioni  di   accesso   alle   misure
alternative  alla  detenzione  (richiedendo   la   condizione   della
«collaborazione»   nel   senso   su   descritto),    non    incidendo
sull'accessibilita' del beneficio in senso assoluto, non interessando
la tipologia  ne'  il  quadro  edittale  della  sanzione  penale  ne'
producendo effetti sulla durata della pena. 
    Cio' comporterebbe prima facie l'irrilevanza della questione  per
l'ordinamento  convenzionale  EDU  e  per   il   nostro   ordinamento
costituzionale   sotto   il   profilo   della    prevedibilita'    ed
accessibilita' delle conseguenze penali della condotta. 
    Infatti, per questo filone giurisprudenziale di legittimita', non
rientra tra gli aspetti da garantire la  predeterminazione,  in  fase
anteriore alla consumazione del fatto illecito, dell'opportunita'  di
accedere alle misure alternative, rimesse pur sempre alla valutazione
discrezionale del giudicante. 
    In questi termini,  il  principio  di  affidamento  dell'imputato
risulta un valore «relativamente tutelabile». Infatti, quanto al caso
della normativa sopravvenuta avente ad oggetto le misure  alternative
alla detenzione, la tutela sarebbe certamente da accordare  nel  caso
in cui la modifica peggiorativa sia intervenuta  quando  il  soggetto
abbia gia' formulato la domanda di accesso al beneficio. 
    Questo   Collegio    ritiene    di    aderire    all'impostazione
giurisprudenziale   da   ultimo    segnalata,    condividendone    le
argomentazioni. 
    Si  osservi  altresi'  che  il  richiamo,  formulato  dalla  tesi
antagonista, alla sentenza della Grande Camera  della  Corte  europea
dei diritti dell'uomo Del Rio Prada contro Spagna, nella parte in cui
farebbe rientrare nelle maglie dell'art. 7 della Convenzione  europea
per  la  salvaguardia  dei  diritti  dell'uomo   e   delle   liberta'
fondamentali la fase esecutiva della pena, non appare a nostro parere
convincente. 
    Nella sentenza in parola, la Corte europea dei diritti dell'uomo,
affrontando  il  caso  del  mutamento  giurisprudenziale  comportante
effetti sull'istituto della liberazione anticipata, ha osservato come
rientri nell'alveo funzionale dell'art. 7 della  Convenzione  europea
per  la  salvaguardia  dei  diritti  dell'uomo   e   delle   liberta'
fondamentali la modifica normativa (o, in  base  alla  giurisprudenza
della Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell'uomo e
delle liberta' fondamentali, anche il  revirement  giurisprudenziale)
che  abbia  inciso  sulla  «portata  della  pena»,  con   conseguente
esclusione, dal tessuto normativo  de  quo,  della  legislazione  che
influisca in senso peggiorativo sulla sola «modalita'  di  esecuzione
della pena inflitta» (par. 104). 
    Secondo  la  Grande  Camera,  la  modifica   (in   questo   caso)
giurisprudenziale non  poteva  applicarsi  in  via  retroattiva  alla
ricorrente,  pena  la  dichiarata  violazione   dell'art.   7   della
Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell'uomo e delle
liberta'  fondamentali,  in  quanto,  incidendo  sull'istituto  della
liberazione anticipata e pertanto sulle  detrazioni  di  pena,  aveva
«condotto anche alla ridefinizione della portata della pena inflitta»
(par. 109). 
    Giova   dunque   osservare   come   la   stessa    giurisprudenza
sovranazionale  non  abbia  espresso  il  principio  secondo  cui  le
modifiche «in corso d'opera» che riguardino la fase  esecutiva  della
pena siano ex se rilevanti ex art. 7 della Convenzione europea per la
salvaguardia dei diritti  dell'uomo  e  delle  liberta'  fondamentali
sicche' se ne debba vietare  l'applicazione  retroattiva  a  condotte
poste in essere prima del loro avvento. Ha invece  meramente  escluso
il  meccanismo  valutativo  inverso  asetticamente  imperniato  sulla
rigida dicotomia «reato/pena - esecuzione della pena» secondo  cui  a
quanto attenga  alla  fase  esecutiva  della  pena  va  acriticamente
applicato il principio tempus regit actum  mentre  a  quanto  attenga
all'identificazione del reato nelle sue componenti strutturali  e  al
trattamento sanzionatorio nella sua perimetrazione legale  va  invece
applicato il divieto di retroazione sfavorevole. 
    L'impostazione di certo «sostanziale» da  sempre  adottata  dalla
Corte europea dei diritti dell'uomo  andra'  interpretata,  a  nostro
avviso, in maniera flessibile andando a  sondare  se,  pur  attenendo
l'intervento normativo al momento esecutivo della pena, esso comporti
riverberi sulla «modalita' esecutiva della  pena»  o  sulla  «portata
della pena», quest'ultima da interpretarsi dunque  sotto  il  profilo
del quantum di pena in astratto eseguibile.  Concludendo  sul  punto,
questo Collegio ritiene che l'art. 4-bis L. ord.  pen.  abbia  natura
processuale e non sostanziale,  cosi'  come  per  le  stesse  ragioni
conserva natura  processuale  l'art.  656,  comma  9  del  codice  di
procedura penale, norma richiamante l'art. 4-bis, in quanto attinente
alle modalita' esecutive della pena  e,  piu'  in  particolare,  alla
«tempistica» di accesso alle misure  alternative;  consegue  che  non
potra' disporsi la sospensione dell'esecuzione della pena  in  favore
della prevenuta, in quanto la nuova formulazione dell'art.  4-bis  L.
ord. pen.  (richiamato  dall'art.  656  cit.),  intervenuta  dopo  la
commissione del fatto  per  cui  v'e'  stata  condanna  e  prima  del
passaggio in giudicato della stessa, potra' regolarmente  operare  in
fase esecutiva nella sua attuale portata lessicale. 
    4.  Quanto  alla  invocata  rimessione  degli  atti  alla   Corte
costituzionale per incostituzionalita' della norma che ha  rimodulato
art. 4-bis L. ord. pen. (art. 1, comma  6  della  legge  n.  3/2019),
l'istante si allinea alle  argomentazioni  gia'  profuse  da  diversi
giudici di merito  che  hanno  sollevato  la  medesima  questione  di
legittimita' costituzionale. 
    In particolare, secondo  il  difensore,  la  norma  censurata  si
porrebbe in conflitto con l'art. 3 della Costituzione  in  quanto  la
legge modificativa non ha previsto  per  l'operativita'  della  nuova
formulazione  dell'art.  4-bis  cit.,  un  regime   transitorio   che
disciplini  le  condizioni  ostative  alle  misure  alternative  alla
detenzione in modo che le stesse non si applicassero a condotte poste
in essere prima della  vigenza  della  norma  rinnovata;  inoltre  si
porrebbe in conflitto con gli articoli 117  della  Costituzione  e  7
della Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell'uomo e
delle liberta' fondamentali perche' opererebbe indebitamente  secondo
la logica della retroazione sfavorevole. 
    Giova in questa sede osservare che il giudice a quo,  dinanzi  ad
una questione di costituzionalita' prospettata dalle parti,  deve  in
primo luogo operare una valutazione di rilevanza della questione  nel
caso al suo vaglio ed una valutazione di non  manifesta  infondatezza
della stessa; deve al contempo, nel caso di apparente  contrasto  tra
la norma censurata ed i principi costituzionali, tentare di  smentire
il  conflitto   mediante   una   interpretazione   costituzionalmente
orientata della norma primaria. 
    Nel caso di specie,  in  primo  luogo  si  ritiene  rilevante  la
questione    in    quanto    una    eventuale    dichiarazione     di
incostituzionalita' dell'art. 1, comma 6, legge n. 3/2019,  norma  di
legge che ha modificato l'art. 4-bis L. ord. pen. per difetto di  una
disciplina transitoria, sortirebbe nel caso all'attenzione di  questo
Collegio gli effetti favorevoli invocati dalla richiedente. 
    E' tuttavia sotto il profilo della non manifesta infondatezza che
questo Collegio ritiene di dover considerare inammissibile  l'istanza
difensiva per come formulata,  in  quanto  non  si  ritiene,  per  le
ragioni esposte in precedenza (in particolare,  §  3  della  presente
ordinanza), che sia  irragionevole  la  mancata  introduzione  di  un
regime intertemporale che vieti all'art. 4-bis L. ord. pen. (per come
riformulato), norma processuale per natura  sottoposta  al  principio
tempus regit actum, di disciplinare la fase  esecutiva  di  una  pena
irrogata per una condotta illecita tenuta in un  momento  antecedente
all'entrata in vigore della legge n. 3/2019. 
    Quanto detto trova la propria ratio nella considerazione  secondo
cui la garanzia della prevedibilita' delle conseguenze  sanzionatorie
dei comportamenti umani, tutelata dagli articoli 25  Cost.,  7  della
Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell'uomo e delle
liberta' fondamentali e 2 del codice penale, non opera  con  riguardo
alle modalita' esecutive della pena e,  in  specie,  con  riferimento
alle condizioni di accesso alle misure alternative  alla  detenzione,
non riguardando le  stesse  la  descrizione  del  fatto  vietato,  il
trattamento  sanzionatorio  ne'  una  modalita'  esecutiva  che,   in
ossequio alla richiamata giurisprudenza della Convenzione europea per
la salvaguardia dei diritti dell'uomo e delle liberta'  fondamentali,
abbia un diretto riverbero sulla portata  della  pena  incidendo  sul
quantum di  pena  da  eseguirsi.  Consegue  che  in  questi  casi  la
previsione di una  disciplina  transitoria  nel  senso  invocato  dal
difensore resta appannaggio del legislatore e rientra nella sua piena
discrezionalita'. 
    Per i medesimi motivi, si ritiene che  la  norma  non  violi  gli
articoli 117 della Costituzione e 7 della Convenzione europea per  la
salvaguardia dei diritti dell'uomo e delle liberta' fondamentali,  in
quanto la norma processuale sfugge al loro ambito di applicazione non
intercettando le esigenze di predeterminazione  e  di  prevedibilita'
delle conseguenze cristallizzate negli addentellati costituzionale  e
convenzionale citati. 
    Ad abundantiam, si aggiunga che la rimessione della questione  di
costituzionalita' alla Consulta andrebbe  esclusa  anche  laddove  si
aderisse alla tesi della natura sostanziale della norma, in quanto la
stessa valutazione della norma in termini  sostanziali  comporterebbe
l'applicazione del divieto di retroazione in peius, che costituirebbe
di   per   se'   quella   interpretazione    costituzionalmente    (e
convenzionalmente) orientata della norma in grado di fugare  ex  ante
il dubbio di costituzionalita'. 
    Ritiene il Collegio  tuttavia,  aderendo  alle  riflessioni  gia'
ampiamente profuse nella citata ordinanza della  Cassazione  sez.  I,
ordinanza 18 giugno 2019, n. 31853, di dover sollevare  questione  di
costituzionalita' dell'art. 1, comma 6, legge n. 3/2019  modificativo
dell'art.  4-bis  L.  ord.  pen.  quanto  al  diverso  profilo  della
inclusione dell'art. 314, comma 1 del codice penale  nel  novero  dei
reati   (condizionatamente)   ostativi   all'accesso   ai    benefici
penitenziari, con diretto riverbero sulla sospendibilita' dell'ordine
di esecuzione ai sensi dell'art. 656, comma 9 del codice di procedura
penale, questione sottoposta a questo giudice dell'esecuzione. 
    A tal fine, incidentalmente si prendono le  distanze  dalla  tesi
pur sostenuta secondo cui al giudice dell'esecuzione sarebbe precluso
il diretto scrutinio preliminare di costituzionalita' dell'art. 4-bis
L. ord. pen. in  quanto  giudice  sfornito  di  competenza  sotto  il
profilo dell'attribuzione dei benefici penitenziari; al contrario, il
giudice dell'esecuzione e' abilitato  a  sollevare  la  questione  di
costituzionalita' di una  norma  di  legge  esorbitante  dal  proprio
raggio d'azione quando la stessa, come nel caso al  presente  vaglio,
viene espressamente richiamata dalla  norma  processuale  regolatrice
dell'esecuzione  penale,  materia  ontologicamente  rientrante  nella
titolarita' di questo giudice. 
    L'eventuale incostituzionalita'  dell'art.  4-bis  L.  ord.  pen.
(rectius della norma che  lo  ha  novellato)  inciderebbe,  in  altri
termini, in maniera diretta sulla portata funzionale  dell'art.  656,
comma 9 del codice di procedura penale, rilevante nel caso di specie. 
    Si e' gia' superiormente  detto  che  l'ampliamento  della  lista
tassativa di reati, per cui l'accesso alle  misure  alternative  alla
detenzione e' subordinato al requisito della collaborazione nel senso
gia' descritto, e' effettuato inserendo  progressivamente  nel  testo
della  norma  tipologie  di'  reato  per  cui  si  ritiene,   secondo
presunzione assoluta,  sussistente  la  pericolosita'  dell'individuo
oggettivamente relazionata al titolo del reato per cui e' intervenuta
la condanna, per cui soltanto  la  collaborazione  con  la  giustizia
proverebbe quella volonta' di emenda che l'intero ordinamento penale,
imperniato sulla finalita' rieducativa ex art. 27 della Costituzione,
si pone quale propria ragione esistenziale. 
    E' stato tuttavia chiarito a piu' riprese dal Giudice delle leggi
che «si deve partire dal costante orientamento di questa  Corte,  che
esclude, nella materia dei benefici penitenziari, rigidi  automatismi
e   richiede   invece   che   vi   sia   sempre    una    valutazione
individualizzata»; infatti, «le presunzioni assolute,  specie  quando
limitano un diritto fondamentale della persona, violano il  principio
di uguaglianza, se  sono  arbitrarie  e  irrazionali,  cioe'  se  non
rispondono  a  dati  di  esperienza  generalizzati,  riassunti  nella
formula    dell'id     quod     plerumque     accidit»;     pertanto,
«l'irragionevolezza della presunzione assoluta si puo' cogliere tutte
le volte in cui sia agevole formulare ipotesi  di  accadimenti  reali
contrari alla generalizzazione  posta  alla  base  della  presunzione
stessa».  (Corte  costituzionale,  4  ottobre  2010,  n.  291;  Corte
costituzionale, 7 luglio  2010,  n.  265;  Corte  costituzionale,  14
aprile 2010, n. 139). 
    Calando i principi teste' enucleati nella realta'  procedimentale
che ne occupa, si ritiene che  l'inserimento  nel  novero  dei  reati
«condizionatamente» ostativi ai benefici penitenziari  del  peculato,
nella piu' grave formulazione di cui all'art. 314, comma 1 del codice
penale, reato fondato, sul piano oggettivo, sullo sviamento della res
di cui si ha  il  possesso  dalla  destinazione  funzionale  ad  essa
originariamente  assegnata  e,  sul  piano  della  colpevolezza,  sul
«tradimento» della  propria  funzione  pubblicistica  che  impone  di
preservare la funzionalita' e la destinazione della cosa in  ossequio
a  primari  interessi  generali,  non   sia   giustificato   da   una
indefettibile pericolosita' sociale e da  una  genetica  ritrosia  al
ravvedimento tali da postulare l'assoluta necessita' che il  soggetto
collabori con la giustizia per attestare la  propria  suscettibilita'
di emenda. 
    Nei termini sopra esposti, riconducibili  ai  principi  stabiliti
nel tempo dalla Corte costituzionale,  questo  Collegio  non  ritiene
sussistente alcuna massima empirica  secondo  cui  il  colpevole  del
delitto di peculato sia, secondo la  logica  dell'id  quod  plerumque
accidit, restio alla rieducazione; ed e' altrettanto agevole, per gli
stessi  motivi,  rinvenire  casistica  opposta  a   tale   opera   di
generalizzazione legislativa. 
    Si ritengono pertanto violati in primo luogo l'art. 3 Cost. sotto
il profilo della ragionevolezza della disposizione di legge  e  della
parita' di' trattamento tra i  consociati,  poiche',  con  l'art.  1,
comma 6, legge n. 3/2019, il legislatore ha inserito nell'ordinamento
penitenziario (con  riverberi  peggiorativi  anche  nell'espletamento
della fase iniziale dell'esecuzione) una condizione  ostativa  per  i
condannati per peculato destinata ad operare indistintamente sia  nei
confronti di coloro  i  quali  denotino  effettivamente  una  elevata
pericolosita' e ritrosia alla rieducazione in quanto  particolarmente
radicati nelle prassi malsane che  talvolta  affliggono  la  pubblica
amministrazione, sia nei confronti di coloro i quali, ad esempio  per
la occasionalita' della condotta  e  per  la  avulsione  da  contesti
allargati e  capillari  di  cattiva  gestione  della  cosa  pubblica,
denotino gia' prima facie una migliore propensione all'emenda. 
    In secondo luogo, si ritiene violato l'art.  27,  comma  3  della
Costituzione, nella parte in cui pone quale finalita' della  pena  la
rieducazione. E' del tutto pacifico  che  il  primo  fattore  causale
utile alla rieducazione e' proprio la fruibilita' non  ostacolata  di
benefici calibrati sull'effettivo bisogno  di  pena  del  condannato;
rendere inaccessibile, se non  a  stringenti  condizioni,  la  misura
alternativa alla detenzione a soggetti per i  quali  tale  misura  si
paleserebbe di per se' idonea alla rieducazione,  esaspera  l'aspetto
generalpreventivo e punitivo della pena  ed  accresce  nell'individuo
quel senso di sfiducia  nell'ordinamento  che  trova  quale  naturale
effetto la refrattarieta' alle tecniche rieducative. 
    In definitiva, il Collegio rimette alla Corte  costituzionale  la
questione  di  legittimita'  costituzionale  dell'art.  1,  comma  6,
lettera b) della  legge  n.  3/2019  nella  parte  in  cui  inserisce
nell'art. 4-bis L. ord. pen. il riferimento al delitto di peculato di
cui all'art. 314, comma 1 del codice  penale,  per  violazione  degli
articoli 3 e 27 della Costituzione.